lunedì 22 ottobre 2007

La rete e il palo Achilpa: un problema dell' identità




World Wide Web. Un mondo vasto. Così vasto che si può smarrire se stessi.
Certo, ci sono i porti franchi dei blog e dei social network, le amicizie, skype, le mappe, ma nulla mette a riparo da quell'immane fiumana provocata dal diluvio informazionale.

Chi siamo all'interno della rete? Voglio dire...che sembianze assumiamo quando navighiamo? Dove siamo in realtà, quando ci muoviamo?
Pensare che una parte di me possa essere catapultata in così poco tempo a migliaia di chilometri di distanza è un qualcosa che turba leggermente il mio senso di integrità.

Per questo ho scelto un confronto. Non per rispondere, ma per sfregare insieme due realtà lontane, nella speranza che dal loro scozzo esca almeno una scintilla di consapevolezza.


Noi ci muoviamo per lo più in un luogo sconosciuto, talmente pieno di frattaglie da risultare desertico, privo di percorsi logici e oasi di senso prefabbricate.
La rete - la rete che ci ingabbia, la rete su cui si salta, la rete che ci permette di pescare sempre nuovi elementi, la rete che ci interfaccia all'altro come in una partita tennistica - ha perso le caratteristiche della dimensione domestica: è diventata piuttosto un enorme campo nomadi su cui ogni giorno, come i primi colonizzatori lunari, dobbiamo piantare la nostra bandiera.

Succede allora, nel tentativo di cosmizzare questo territorio selvatico, di trovarsi sbattuti alle glaciali periferie del sensato, fuori dal gioco dei colori e fuori dall'elastico, irrigiditi e ammutoliti dalla paura di perdere il controllo su quel mondo che un attimo prima era apparso nostro amico.

E' in momenti come questo, momenti in cui il diluvio ti trascina al di là della rete, che puoi cogliere la tua frammentarietà, la tua trasparenza, il tuo essere fantasmatico innanzi al World Wide Web.

Come attraversare il nuovo? Come proteggersi dall'inevitabile turbine vorticoso che lo accompagna? L' ambiente sotto i nostri piedi è così mutevole, la nostra identità è così a rischio che devo chiedere se esistono ancora un Excalibur dei guerrieri, un anello del Signore, o una copertina di lana di Linux capaci di darci la forza e di orientarci tra gli anfratti onirici del cibernetico.

Gli Achilpa, una delle tribù australiane Aranda, ci forniscono forse il parallelo più pertinente di questo sentimento di sperdutezza in uno spazio sconosciuto, caotico.


Secondo la loro mitologia , un essere divino chiamato Numbakula "cosmizzò" il loro territorio e fondò le loro istituzioni.
Con il tronco di un albero della gomma Numbakula costruì poi un palo sacro, vi si arrampicò fino al cielo e scomparve.
Questo palo rappresenta l'asse cosmico; è infatti attorno ad esso che la terra diventa abitabile e si trasforma in "mondo". Il suo ruolo rituale, pertanto, è considerevole. Gli Achilpa se lo portano dietro nelle loro migrazioni e decidono la direzione da prendere a seconda della sua inclinazione.
Ciò consente loro, malgrado i continui spostamenti, di trovarsi sempre nel "loro mondo" e di restare al tempo stesso in comunicazione con il cielo in cui Numbakula scomparve.
Se il palo si spezza è la catastrofe; è in un certo senso "la fine del mondo", una regressione nel caos. Spencer e Gillen riportano una leggenda secondo cui l'intera tribù cadde in preda all'angoscia perché il palo si era spezzato. Dopo aver vagabondato a caso per qualche tempo, alla fine i membri si sedettero per terra e si lasciarono morire.


Questo è un eccellente esempio della necessità di avere un punto di riferimento nel deserto, fisico o cognitivo che sia.


Per gli Achilpa il "mondo" diventa "il loro mondo" solo nella misura in cui riproduce il cosmo organizzato e santificato di Numbakula. Senza quest'asse verticale che garantisce un'apertura verso il trascendente e al tempo stesso consente l'orientamento nello spazio, essi non possono vivere. In altre parole: non si può vivere nel "caos". Una volta interrotto il contatto con il trascendente e distrutto il sistema di orientamento l'esistenza non è più possibile. Gli Achilpa si lasciano morire.
Mircea Eliade


Un palo. Solo un palo, per mettersi in guardia dalle fobie paralizzanti che un oltre spaventoso incute loro come minaccia: queste persone rischiano di sparire come presenza di fronte al nuovo; presenza psichica, certamente, ma anche corporea.


Forse che il palo Achilpa (Kauwa-auwa), ricavato dal tronco di un giovane albero della gomma e convenientemente decorato, può essere il corrispettivo della nostra Apple, frutto del più curato design, o dei nostri blog, ricamati da layout e loghi tanto sgargianti quanto evanescenti?

Bastano, questi cari oggetti transizionali, a tener strette le maglie di un io pellegrino come il nostro, o moriremo anche noi, schiacciati dal pesante disordine della rete?

lunedì 15 ottobre 2007

Scrittura

immagine presa da John Picacio

Un pensiero ad alta quota, turbolento.
Per scrivere bisogna fare esperienza. Per fare esperienza bisogna lacerare la nostra persona.
Un taglio o più tagli, dritti sul cuore o trasversali, sulle parti del corpo, dipende dal tipo di scrittura per cui si è portati. L'importante è aprire, logorare e richiudere. Le cuciture delle cicatrici saranno le parole sul foglio.


Niente trucchi, tranne qualche ritocco di colore. Quando scrivo voglio il fiato dell' adrenalina sul collo. Voglio le voragini dell'immenso. Se non ci sono me le vado a cercare. Apro le cose, le faccio mie, le impoltiglio, le mangio e le rivomito.
Diffidate da chi non compie queste gesta. Diffidate da me, qualora non dovessi adempire a questo compito così vitale.


In questi momenti si può capire la storia, gli scrittori, le loro aperture. Kafka, per esempio, quando dice che le lettere si incidono nella carne e fanno male, ti cambiano, ti stravolgono. Sono convinto che più della metà dei giornalisti non perde un tassello della propria persona, quando scrive.

Io voglio perderlo. Sto chiedendo aiuto all' ambiente in questo momento. Spero che gli alberi mi divorino e sputino la mia carcassa lontano dal fantasma egoico che mi perseguita.

venerdì 12 ottobre 2007

Psichedelia e oltre: chiaccherata con gli scettici


Le architetture allucinate delle pitture. Le strane figure teriomorfe che si celano dietro ai racconti mitologici delle civiltà antiche. I personaggi storti e surreali dei libri, le loro facoltà avanzate, le loro azioni impossibili..."SONO IL PRODOTTO DELLA MENTE", si urla, castigando quei fenomeni in uno spazietto angusto nell'anticamera del cervello, a metà tra gli scomparti soggettivo ed inesistente.

Di quale mente? Di una mente "fantasiosa", "inventrice", che si diverte a gironzolare per l'universo della "fiction" azzardando di tanto in tanto timidi schizzi di colore sul maestoso e impenetrabile muro della realtà oggettiva? Non sono già feretri, sagome morte, questi schizzi? Che probabilità hanno di sopravvivere, se non come ologrammi, in un mondo compatto come il nostro, in cui non s'accettano mutazioni nè alterazioni, in cui ogni elemento di novità e stranezza è rincalcato a legnate dalla sobria ed elegante verità?

"INFATTI NON SOPRAVVIVONO", si risponde. "Sono stravaganze momentanee che rilassano e danno la forza per tirare avanti".

Perchè allora, cercando tra i Normali, posso scovare qualcuno che abbia fatto esperienza di trasformazioni corporee, mirato paesaggi luccicanti o previsto la propria morte?

Io parlo non di menti schizofreniche, che proiettano oggetti inconsistenti sulla realtà condivisa.
Parlo invece di menti psichedeliche, cioè indagatrici di costrutti, disposte a cogliere segnali muti e a lasciarsi cavalcare dalle sinestesie. Parlo di menti che hanno spostato il proprio assetto chimico per abitare, anche se solo temporaneamente, mondi alternativi.

"AH SI? E PERCHE' CI SAREBBE BISOGNO DI SOSTANZE PSICHEDELICHE? E che cosa significa questo spostare l'assetto chimico?"

Ecco, ve lo racconto:


(...) fatto sta che, in un luminoso mattino di maggio, ingoiai i quattro decimi di un grammo di mescalina sciolta in mezzo bicchiere d'acqua e sedetti ad attendere le conseguenze.
Essere sospinti fuori dalle linee dell'ordinaria percezione, ricevere per qualche ora al di là del tempo, la manifestazione del mondo esterno e di quello interno, non come essi appaiono all'animale ossessionato dalla sopravvivenza o a un essere umano ossessionato dalle parole e dalle nozioni, ma come essi sono captati, direttamente e incondizionatamente, da un intelletto aperto all'universo: questa è un esperienza di valore inestimabile per chiunque.


L'ipotesi scientifica che si avanza e che la funzione del cervello, del sistema nervoso e degli organi dei sensi sia principalmente eliminativa e non produttiva. Essi debbono infatti


(...) proteggerci contro il pericolo di essere sopraffatti e confusi da questa massa di conoscenza in gran parte inutile e irrilevante, cacciando via la maggior parte di ciò che altrimenti ricorderemmo o percepiremmo ogni momento intorno a noi, nell'universo.


Continua:


La maggior parte della gente, per la maggior parte del tempo, conosce soltanto ciò che passa attraverso la valvola di riduzione e viene consacrato come genuinamente reale dal linguaggio del luogo. (...) Il cervello è fornito di una serie di enzimi che servono a coordinare il lavoro. Alcuni di questi enzimi regolano la fornitura di glucosio alle cellule del cervello.
La mescalina, ad esempio, inibisce la produzione di questi enzimi e così diminuisce l'ammontare di glucosio disponibile a un organo che ha continuo bisogno di zucchero. (...) Quando il cervello lavora a zucchero ridotto, l'io indebolito si denutrisce, non si può preoccupare di intraprendere tutte le azioni necessarie, e perde tutto l'interesse in quei rapporti di spazio e tempo che significano tanto per un organismo soggetto a mantenersi nel mondo. (...) Ogni specie di cose biologicamente inutili comincia ad accadere...

Aldous Huxley, Le porte della percezione


Io penso che dovremmo riflettere su questo, signori miei.
Non è possibile che alterando la sola chimica neuronale venga franando quell' universo che abbiamo camminato per anni in comode pantofole da casa.

Mi chiedo se tutta la realtà preconfigurata da un assetto normale non sia anch'essa una grande allucinazione. Dato che ad una determinata impostazione cerebrale corrisponde una precisa immagine del mondo, e dato che noi siamo soliti affezionarci più del dovuto all'impostazione che ci ha offerto la vita quando c'ha incontrato, mi vien da ridere al solo pensiero che di qui alla nostra morte noi avremo vissuto al massimo una o due opzioni esistenziali.

E si ingrossa dentro di me il dubbio che la Normalità sia una realtà ingessata, fratturata dalle caviglie alla testa e impossibilitata a muoversi.

Insomma, se basta una goccia o un pezzo di carta di cinque millimetri per spostare il mondo, allora significa che quel mondo non è poi tanto compatto e resistente.

Ecco allora, io voglio aprire questo mondo, voglio squartare la normalità e abitarci dentro da nomade. Via le banalizzazioni e le ossessioni e via anche la serietà, diserbante di meraviglie.

Vi voglio però dar ragione su un aspetto, miei scettici. Niente droghe....ho trovato il modo di spostare il mio assetto senza danneggiarlo, o almeno spero

venerdì 5 ottobre 2007

La razza del futuro

immagine presa da H.R. Giger

Si può dire qualunque cosa su Giger. Sicuramente il macabro sfondo sessual-feticistico con cui quest'artista ha imbrattato le fin troppo pulite pagine dell'esistenza non è tra i più rasserenanti. E' vero, forse è esageratamente orrorifica la sua visione, cattiva la devastazione che opera nei confronti dell'armoniosa creatura umana.

Si. Giger ha avuto l'ardita ambizione di trasformare in un tetro e viscerale ambiente intrauterino i pascoli gai e luminosi dell'immaginario terrestre. Ha mescolato poi questo fluido immondo e decomposto con la tagliente e diabolica nervosità dell'elemento meccanico, tipico della nostra era robotica.

Qui i suoi frutti chimici, risultato di una magia pittorica che riesce a percepire e a trasferire su tela il lato insettoide e rettile che ciascuno di noi, insieme a componenti inorganiche di natura pressoché sconosciuta, occulta e custodisce gelosamente all'interno del proprio io.



Ma allo stesso Giger va riconosciuto un merito: quello di aver saputo anticipare come un veggente la bizzarra ibridazione che caratterizza oggi i nostri profili.

Attenzione! Non intendo dire che la razza umanoide sia scomparsa dalla superficie terrestre e che al suo posto stia prendendo vita una colonia di alieni spietati: lascio queste storie ad Asimov e a Dick, molto più bravi di me nel'arte di rendere credibili racconti fantastici.

Chiedo solo un occhio artistico, una sensibilità che abbia il coraggio di sollevarsi dallo scontato, la curiosità di calarsi nei complessi ghirigori che stanno a monte delle nostre percezioni, del nostro ragionamento e dei nostri giudizi.
Vedrete se quest' uomo non apparirà allora come precursore del nostro tempo!


Una volta aperta la breccia nel rassicurante abitacolo delle percezioni ordinarie potremo scoprire quanto a fondo il veleno di queste pitture punga la relazione che ha l'uomo con la realtà, tangibile o virtuale che sia. E' la dicotomia tra allucinazione e visualizzazione effettiva che viene meno, in Giger. Il pensiero insomma, non si distingue più dalla materia, e la materia, la nostra materia, fatta di carne e sangue, si intreccia miracolosamente con un sintetico alieno, altro e alterato.

Tutta l'opera di Giger è un grande apparato scenico che ispira e forse riflette i nostri più avanzati modelli esistenziali. Basta girarsi intorno, vedere persone che camminano o corrono con due pezzi di ferro al posto delle gambe. Altre possono sopravvivere perchè hanno protesi gommose sparse per tutto il corpo, bypass impiantati nel sistema cardiocircolatorio, microcip capaci di rimuovere dalla memoria gli eventi più traumatici.

Non solo. L' infinita gamma di macchinari di cui fanno uso questi "mostri" per meglio svolgere le loro azioni strampalate ricordano da vicino la nostra attrezzatura computeristica, i miliardi di cavi (ora un pò diminuiti) che la circondano. I protagonisti delle tele di Giger sono avvolti e sommersi dai cavi. Tubi morbidi che si trasformano in ossa e poi penetrano nella carne e la perforano, uscendo mutati in qualcosa di inconcepibile.

Le posizioni e i movimenti di questi personaggi-cose non sono di minore importanza: se ad una prima occhiata possono apparire surreali e privi di qualsiasi logica gravitazionale, ad una più attenta riflessione sembrano invece esprimere bene le forme disarticolate che assumiamo quando, immersi nel galleggiamento amniotico del web, tentiamo, con schizzi repentini e capovolgimenti e stiramenti, di reinventarci completamente.


Giger, tu tagli il mio tessuto cellulare in parti sottilissime, per mostrarle al mondo.
Giger, preciso come una lama di rasoio, tu sezioni parti del mio cervello e le trasferisci sulle tue tele.
Giger, tu sei un estraneo appostato nel mio corpo, dove deponi le uova miracolose che predicono il futuro. Hai avvolto intorno a te fili di seta di larve per penetrare profondamente la parte del mio cervello in cui domina la saggezza.
Giger, tu vedi, più di noi, primati addomesticati. Provieni da una specie superintelligente? Sei un visitatore infetto, che con gli occhi a petalo di papavero guarda dentro i nostri organi riproduttori?

Temothy Leary