lunedì 26 novembre 2007

Il mito della caverna...e il mio


Noi vediamo poco, quasi niente. Siamo orbi.
Semivivi, se vi piace di più. A volte ci siamo, a volte non ci siamo.
In un caso o nell'altro comunque, noi, abitanti del buio, non possiamo fare a meno di vedere ombre.

Dico questo perché l'amico Platone ha spacciato per anni l'idea che qualche coraggioso pioniere potesse permettersi il lusso di comprare un paio di occhiali, risalire il tortuoso stradello dell'errore e contemplare, ringalluzzito dalla nuova forza visiva, la mirabolante e raggiante luce del sole.

Vi distoglierò da questo brutto pensiero annunciandovi già da subito che il tanto agognato miracolo ottico non avverrà.

In primo luogo il sole brucerebbe la vista, impedendoci di godere persino delle ombre rimaste giù nella caverna. In secondo luogo, e questa asserzione è un po' più forte, non esistono né la verità né i cacciaviti e i martelli per rompere le catene che ci tengono "imprigionati" nella grotta, "obbligati" ad osservare le illusioni macchinate dagli abili prestigiatori alle nostre spalle.

Quelle catene siamo noi, ecco il punto. Se le rompiamo ci rompiamo.
Io penso e non scherzo, che noi siamo dei filtri piazzati tra il falso e il vero, siamo IL-LUSIONI, cioè dentro ad un gioco (in-ludo) ai cui estremi si pongono la realtà e l'allucinazione. Noi non potremo mai, e dico mai, toccare questi estremi. Pena: la morte.


Credo, invece, nei prestigiatori.
Non si tiri fuori i politici o il burattinaggio economico della pubblicità, per l'amor di dio. Non ho in mente loro quando dico che siamo orientati da "qualcuno" o "qualcosa", nelle nostre costruzioni. Penso ad un nonsocchè con quel pizzico di charme in più e soprattutto con spiccate doti creative, qualità sicuramente mancanti ai nostri vecchi governatori.

Naturalmente noi non possiamo vederli, questi prestigiatori.
Se dio vuole, la nostra condizione di semicecità è un manto protettivo che ci evita di essere scottati dalla loro incandescente consapevolezza.

Però il fatto certo è che l'umanità non è schiava di questi signori cosmici. Vige, tra di noi, un onesto e sincero rapporto di scambio: loro ci danno la verità e noi, dopo averla filtrata e falsificata, gliela riconsegniamo. E' un circolo simpatico, non vizioso. Anzi, non è nemmeno un circolo, è un gran casino; slittamenti temporali, salti bruschi, linee rette che si sfaldano su cerchi già tracciati e tant'altro ancora...poi ne parlerò.
L'importante è sapere che l'impasto che ne viene fuori, quelle ombre che scorrono sul muro della caverna conosciute altresì come realtà oggettiva, sono tutto ciò a cui possiamo aspirare.

Ma attenzione, nota bene, achtung!
Non si cada in stupidi tranelli e in giudizi frettolosi del tipo "questo appartiene a noi", "quest'altro è loro", "questa è sicuramente finta, è così evidente", ecc.; si mastichi bene prima di risputare.
Non sappiamo di preciso che cosa sia reale e che cosa non lo sia. Non sappiamo che cosa esista, di preciso.


Esiste l'uomo, l'individuo singolo. Lo accompagna una pratica antica quanto il suo esser venuto al mondo: la masturbazione mentale, l'andierivieni del pensiero, il flusso scorrevole del suo ragionare.
Quando l'attività di quest' individuo giunge al culmine, quando i sistemi nervosi si intrecciano tra loro e si scontrano e raggiungono l'apoplessi, il suo pensiero eiacula nel cielo e si staglia sopra l'umanità.
E' un'allucinazione, un'intuizione soggettiva e precaria, ma è il suo mondo, tutto il suo mondo.

Quand'anche le emissioni degli altri individui si uniscono ala prima ecco che, come un grande puzzle composto da tanti mondicini, prende forma un tetto. E' la noosfera, una sorta di pellicola opaca sopra le nostre teste, reale quanto la biosfera, come essa protettiva e ossigenante.

Platone la schifava tanto. Odiava il carattere fugace e transitorio che le era proprio. Quel brilluccichio sensibile...sapete..., quando le placche sono ancora fresche, e si mescolano tra loro, e non c'è versi di scollarle, e c'è confusione di mondi e inadeguatezza psicologica.

Non poteva però nemmeno sopportare chi sperperava il patrimonio in ammassi di inutile materiale cementizio con l'intento febbrile di tener ferme le placche o comunque di gestirle a modo proprio.

E sono convinto che odiasse ancor di più il momento in cui, dovuto alla secchezza e all'aridità che sopraggiunge dopo lungo tempo a qualsiasi forma di vita, si veniva a formare come una crosticina indurita che, poco alla volta, lasciava cadere pezzetti di mondi come cingomme appiccicate sotto a un banco chiamate improvvisamente a terra dalla forza di gravità.

No no, non era roba per Platone questo manto, questa cortina fumogena piena di movimenti e sovrapposizioni. Lui voleva superarla. Voleva pulizia, nettezza, definizione. Voleva vederci chiaro.


Sapete che vi dico. A me piace essere orbo. Io mi diverto a saltellare nello sperma viscoso dell'umanità, adoro essere annegato per lunghi inverni nelle calde procreazioni della mia specie, fluttuare lentamente rintontito dal torpore di idee straniere, assaporare il letargo della mente, non esserci...fino a quando un grido potente mi strappa dalla morte e mi sussurra, velocissimo, che ora è il mio turno, che ora posso essere io, a giocare.

Io sono contento di vivere in un sogno sconnesso, di far parte al tempo stesso dei dormienti e degli svegli.
C'è stato un periodo della mia vita in cui ho tentato di svegliarmi completamente.
Ero piccolo e incosciente; avevo preso l'abitudine di infilarmi di soppiatto e a notte inoltrata nel lettone dei miei genitori. Riparato da quei due scudi provavo a ripetermi in continuazione la frase "la vita non finirà mai", "non finirà mai", "finirà mai", "mai", "mai".
Era il mio modo, rozzo e primitivo, di far luce sul concetto di eternità. E funzionava eh; e come poi! Arrivavo ad uno stadio in cui le facce di mia madre, mio padre, mia sorella e la mia prendevano a girare vorticosamente nel cielo e poi salivano in alto, e si fermavano, e anche il tempo si fermava, e come posate su di un quadro puntinato di bianco e celeste quelle cominciavano a pulsare e io cominciavo ad odorare l'eterno...

Poi, ad un tratto, la pesantezza, la fatica di tener ferma l'immagine e un'ondata di paura che s'impossessava di me. Tutto, poi, finiva di netto.

Capite? Giunto ai confini del conoscibile la mia piccola mente veniva prontamente spenta dai prestigiatori. Volevo capire troppo, volevo svegliarmi, e loro applicavano un velo sui miei occhi con le stesse premurose attenzioni di una madre.
Lo so, ho rischiato grosso, ma qualcuno mi ha salvato.

Mi è successo anche l'opposto: mi sono rilassato, ho banalizzato il mondo e ridicolizzato l'uomo. Loro sono intervenuti e quella realtà sorniona e sbadigliante è andata in frantumi, il velo di maya si è sfibrato e, per quel breve lasso di tempo, mi è stata data la generosa opportunità di rimettere insieme le maglie.



Io non voglio che vi affaccendiate il capo con la diatriba su ciò che è oggettivo o soggettivo nei miei discorsi. Mi dispiacerebbe vedervi arrovellati nel dilemma di una scelta tra una vita dedicata alla ricerca di un' unica, sana e incontaminata verità e una sprofondata invece nella rassegnazione ad un universo illusorio e pieno di angherie.


Vi lascio allora con questa perla di saggezza e spero che non la prendiate né a ridere né troppo sul serio.


Noi siamo i bravi cazzoni dei prestigiatori. Loro ci agitano e noi spruzziamo fuori idee.
Non dobbiamo affliggerci perché quello che esce non è, come si suol dire, farina del nostro sacco; dovremmo anzi essere contenti di collaborare con loro. Certo quel pasticciume con cui abbiamo a che fare non è un gran che, soprattutto dopo che è passato dalle nostre mani ed ha cominciato a puzzare di finzione. Però dobbiamo ammettere che in fondo, noi, abbiamo il grande vantaggio di lavorare su di un materiale divino.

Che importa se la fuoriuscita, il prodotto, è un'ombra. D'altra parte se ci mettessimo in proprio, se decidessimo di lavorare senza quel materiale gireremmo a vuoto.
Se poi avessimo la presunzione di voler scavalcare il tetto, se il materiale puro a cui aspiriamo tanto non fosse diluito dalla nostra stoltezza e noi volessimo ugualmente farne uso nella sua pienezza, esso sarebbe troppo forte e alcolico: ci ubriacheremmo.

Noi abbiamo bisogno dei prestigiatori, dei loro trucchi ammortizzanti. Abbiamo bisogno di poter concepire l'inconcepibile. Loro hanno bisogno di noi, per osservare dal basso e dall'infimo la mostruosa e sconfinata immagine di sè stessi.

Noi saremo un ostacolo alla comprensione, oh Platone, ma siamo anche i propulsori creativi dell'universo.

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